Il mio obiettivo è la storia biografica: se dovessi riassumere in pochissime righe quello che ho fatto in questi anni, forse potrei dire che ho raccolto pensieri per popolare il passato
(Sabina Loriga, La piccola x. Dalla biografia alla storia, ed. Sellerio, 2012).
Nel corso del XIX e del XX secolo, molti storici hanno coltivato il sogno di scrivere una storia impersonale. Per alcuni decenni, in nome della scienza, la parola d’ordine è stata: uniformare i fenomeni sociali, eliminare le differenze, gli scarti, le idiosincrasie.
Tuttavia, e per fortuna, una minoranza di autori hanno cercato di salvare la dimensione individuale della storia.
Quel tempo ha dato vita a una riflessione estremamente ricca e complessa sulla «piccola x». Tale espressione è di
Johann Gustav Droysen, che, nel 1863, scrive che,
se si chiama A il genio individuale, cioè tutto ciò che un singolo uomo è, possiede e fa, allora questa A consta di a + x, dove a comprende tutto ciò che gli viene da circostanze esterne, dal suo paese, dal suo popolo, dalla sua epoca, etc. e x il suo contributo personale, l’opera della sua libera volontà.
Prima e dopo Droysen, altri autori esplorano la piccola x: degli storici (oltre a Thomas Carlyle, alcuni tedeschi, da Wilhelm von Humboldt a Friedrich Meinecke), uno storico dell’arte (Jakob Burckhardt), un filosofo (Wilhelm Dilthey) e uno scrittore (Leone Tolstoj).
Nella Prefazione del suo libro, l'autrice afferma: "
Dalla fine del secolo XVIII, gli storici hanno accantonato le azioni e le sofferenze dei singoli, per cercare di scoprire il processo invisibile della storia universale. Le ragioni che li hanno indotti a trascurare i singoli esseri umani, per passare da una storia plurale (die Geschichten)
a una storia unica (die Geschichte)
sono svariate. Senza dubbio, hanno pesato due difficili sorprese della modernità: da un lato, la scoperta che anche la natura è mortale e, dall’altro, la progressiva perdita di fiducia nella capacità dei nostri sensi di cogliere la verità (dai tempi di Copernico, la scienza non fa altro che mostrarci i limiti dell’osservazione diretta). Ma, accanto a queste trasformazioni profonde, hanno forse influito alcune vicissitudini intellettuali meno tragiche, anche più banali. Innanzitutto, la speranza di dare alle scienze umane basi scientifiche stabili e oggettive. Si è trattato di un immenso sforzo di conoscenza, che ha indotto le discipline più disparate (dalla demografia alla psicologia, dalla storia alla sociologia) a uniformare i fenomeni, spesso eliminando le differenze, gli scarti, le idiosincrasie.
Il vizio di veder tutto simile e uguale ha avuto conseguenze gravi.
Hannah Arendt ne parla in una lettera a
Karl Jaspers del 4 marzo 1951. Ritornando, ancora una volta, sulle tragedie politiche e sociali che hanno impregnato il XX secolo, scrive che il pensiero moderno ha perduto il gusto della diversità: “
Che cosa sia oggi il male nella sua dimensione reale non lo so, ma mi sembra che esso in certo modo abbia a che fare con [questo fenomeno]:
la riduzione di uomini in quanto uomini a esseri assolutamente superflui”. Poi precisa: “in questo pasticcio la filosofia non è del tutto senza colpa. Naturalmente, non nel senso che Hitler abbia qualcosa a che fare con Platone (…), ma piuttosto nel senso che questa filosofia occidentale non ha mai avuto un concetto puro della politica, né poteva averne uno, perché ha sempre parlato di necessità, dell’Uomo, e si è occupata della pluralità solo incidentalmente”.
Questa perdita di pluralità riguarda, oltre la filosofia, anche la storia. Negli ultimi duecento anni, i nostri libri di storia si sono riempiti di racconti senza soggetto: parlano di potenze, nazioni, popoli, alleanze, gruppi di interessi, ma solo molto raramente di esseri umani. Come ha intuito uno scrittore particolarmente attento al passato,
Hans Magnus Enzensberger, la lingua della storia ha cominciato a nascondere gli individui dietro categorie impersonali: “
la storia viene esibita senza soggetto, le persone di cui essa è la storia compaiono solo come figure accessorie, come sfondo scenico, come massa oscura nel fondo del quadro: ‘i disoccupati’, si dice, ‘gli imprenditori’” ... persino i cosiddetti makers of history appaiono privi di vita: “la sorte degli altri – quelli del cui destino non si fa parola – si vendica sulla loro sorte: essi sono irrigiditi come manichini e somigliano alle figure di legno che nei dipinti di De Chirico prendono il posto degli uomini”.
Il prezzo etico e politico di questa desertificazione del passato è molto elevato. Nel momento in cui scartiamo le motivazioni personali, “
Alessandro, Cesare, Attila, Maometto, Cromwell, Hitler sono come inondazioni o terremoti, albe, oceani o montagne; possiamo ammirarli o temerli, benedirli o maledirli, ma criticare o magnificare le loro gesta è in definitiva tanto ragionevole quanto rivolgere la predica a un albero”. Queste parole di
Isaiah Berlin, scritte nel 1953, sono estremamente importanti e attuali. Negli ultimi anni la storiografia cosiddetta postmoderna, di ispirazione nietzschiana, è spesso stata rimproverata di avere minato l’idea di verità storica e, quindi, abolito la possibilità di valutare il passato. Ma il pericolo di relativismo, che corrode il principio di responsabilità individuale, è insito anche in una lettura impersonale della storia, che descrive la realtà attraverso anonimi rapporti di potere. Berlin ci ricorda che la speranza di far parlare le cose stesse ci spinge a proporre un’immagine eccessivamente necessaria della realtà".